La prima piattaforma utilizzata dai fan di musica in tutto il mondo è YouTube: l’81% degli utenti, secondo lo studio di IFPI del 2018, accede infatti a musica legale in streaming attraverso questa piattaforma. A titolo di esempio, il 61% accede tramite un servizio audio (Spotify, Amazon, Apple music, ecc.) e di questi il 48% accede tramite un servizio ad-supported, ovvero gratis per il consumatore. In Italia, di tutte le modalità di fruizione musicale Youtube si piazza al secondo posto (19%), dopo la radio con il 25%. Ma tra i ragazzi di 16-24 anni YouTube è la prima fonte di consumo musicale, attestandosi al 26% di share.
Il rapporto tra YouTube e industria musicale
Questa premessa è importante perché lo scontro avvenuto nei giorni scorsi sull’approvazione della nuova legislazione europea non è stato tra industria musicale da un lato e high tech dall’altro, per “costringere” queste ultime a pagare - come qualcuno ha scritto - ma per fare in modo che servizi simili possano remunerare in maniera equa gli aventi diritto. La maggior parte della musica legale oggi passa già da YouTube: la piattaforma di video sharing è già un partner importante per l’industria e molte label sviluppano continuamente iniziative promozionali congiunte e, tra l’altro, YouTube di recente ha lanciato un servizio premium in abbonamento.
La soluzione del legislatore
Il tema pertanto non è stato di contrapposizione sul ruolo della piattaforma nell’ecosistema della musica digitale: la questione principale è stata invece quella della particolare collocazione giuridica che ha fatto sì che YouTube potesse godere di un vantaggio negoziale con effetti distorsivi sulla stessa concorrenza tra piattaforme.
Il più importante obiettivo raggiunto dal legislatore comunitario è stabilire che una piattaforma di video sharing come YouTube (o Facebook) un servizio della società dell’informazione definito come "prestatore di servizi di condivisione di contenuti online". Un soggetto il cui scopo principale è "memorizzare e permettere al pubblico l’accesso a grandi quantità di opere protette dal diritto d'autore o altri materiali protetti caricati dagli utenti, che il servizio organizza e promuove a scopo di lucro) svolga un atto di comunicazione al pubblico". La rivoluzione copernicana risiede proprio in questa frase: "comunicare al pubblico".
Fino ad ora le piattaforme di video sharing, ovvero con contenuti caricati dagli utenti, restavano escluse dalle previsioni di legge e in particolare potevano godere dell’assenza di responsabilità prevista dalla direttiva sul commercio elettronico. Ma ora lo scenario cambia: come ben descritto nel considerando 62 della Direttiva approvata pochi giorni fa, viene chiarita la caratteristica di queste piattaforme. Alcuni servizi della società dell'informazione, nel quadro del loro normale utilizzo, sono concepiti in modo da dare al pubblico l'accesso a contenuti o altri materiali protetti dal diritto d'autore caricati dai loro utenti.
La definizione di "prestatore di servizi di condivisione di contenuti online" ai sensi della presente direttiva dovrebbe comprendere unicamente i servizi online che svolgono un ruolo importante sul mercato dei contenuti online, in concorrenza con altri servizi di contenuti online, come i servizi di streaming audio e video online, per gli stessi destinatari. La presente direttiva riguarda i servizi che hanno come scopo principale o come uno degli scopi principali quello di memorizzare e consentire agli utenti di caricare e condividere un gran numero di contenuti, al fine di trarne profitto, direttamente o indirettamente, organizzandoli e promuovendoli per attirare un pubblico più vasto, anche classificandoli e ricorrendo a promozioni mirate al loro interno.
Cosa stabilisce l’articolo 17 (ex art. 13)?
"Il prestatore di servizi di condivisione di contenuti online effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico ai fini della presente direttiva quando concede l'accesso al pubblico a opere protette dal diritto d'autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti. Un prestatore di servizi di condivisione di contenuti online deve pertanto ottenere un'autorizzazione dai titolari dei diritti”.
Questa innovazione - che prevede, a differenza di oggi, che YouTube ottenga una licenza preventiva (e che tale licenza copra anche anche gli atti degli uploader, un fatto positivo per gli utenti della rete) - è un passo fondamentale per stabilire un principio che l’industria discografica ha sempre richiesto: i servizi similari devono avere una connotazione giuridica similare. Si tratta di un enorme progresso che consentirà finalmente di riconoscere a YouTube il ruolo determinante nel panorama della musica digitale, garantendo che case discografiche, autori ed artisti siano remunerati adeguatamente.
Nell’attuale scenario, come noto, la media dei ricavi per utente è di un dollaro all’anno da YouTube contro i venti generati da un servizio come Spotify. Anche considerando il modello free di Spotify verso il modello free di YouTube, i ricavi sono nettamente inferiori a fronte di centinaia di milioni di utenti della piattaforma di video sharing:
Con questa normativa, e le recenti decisioni giurisprudenziali, anche italiane, in materia di responsabilità per la comunicazione al pubblico (si veda a titolo d’esempio il caso Mediaset vs Vimeo) è prevedibile un riallineamento delle future condizioni economiche e un’innovazione legislativa che porterà benefici per tutta la filiera. Nel 2018 in Italia il segmento video streaming ha generato circa 18 milioni di euro di ricavi: se soltanto, in prospettiva, i ricavi da questo segmento si allineassero a quelli di Spotify free, il valore degli incassi potrebbe di fatto raddoppiare. Senza considerare che l’ingresso a pieno titolo di YouTube tra le principali piattaforme legali e remunerative per l’industria non farebbe altro che estendere ulteriormente le partnership, oggi limitate dalla bassa remuneratività, con grande soddisfazione di YouTube e dell’intera industria musicale.