Nei giorni scorsi la RIAA (Recording Industry Association of America) ha diffuso il report completo sull’attuale stato di salute del primo mercato discografico mondiale.
In attesa dei dati globali di IFPI, la fotografia USA consente molte osservazioni. Nel 2017 gli Stati Uniti sono cresciuti per il secondo anno consecutivo, con gli abbonamenti streaming a farla da padrone. Nel 2017 sono stati oltre trecento miliardi gli stream. Oggi, con 35 milioni di abbonati, una popolazione grande come l’intero Canada consuma musica con un servizio a pagamento negli Stati Uniti, e questo è sicuramente un progresso enorme per un settore che solo dieci anni fa era dato per spacciato.
Un’industria, quella discografica, frastornata dalla rivoluzione di Napster e poi del p2p e che sembrava destinata a scomparire davanti alla disintermediazione e al consumo free ma che ha saputo reiventarsi e rinascere dalle proprie ceneri.
Gli abbonamenti a pagamento superano i 4 miliardi di dollari
Per la prima volta lo streaming premium, ovvero gli abbonamenti a pagamento hanno superato i 4 miliardi di dollari e rappresentano la fetta principale dei ricavi di major ed etichette indie in USA. Un rivoluzione, quella dell’industria musicale che è avvenuta, come ha acutamente osservato qualcuno, come se un aereo avesse cambiato i motori in volo, ovvero continuando a lanciare nuovi artisti ed investire.
Le aziende, in tutti questi anni di totale disruption dei propri modelli di business, hanno continuato ad investire in ricerca a sviluppo al ritmo di oltre 4,5 miliardi di dollari all’anno per scoprire e lanciare nuovi talenti. Internet ha reso tutto più semplice, con milioni di canzoni messe a disposizione a livello globale in ogni istante, ma ha anche reso più difficile per un artista emergere.
Le label discografiche hanno pertanto cambiato pelle, molti giovani hanno preso le leve dei segmenti della promozione e delle strategie social, il ricambio generazionale ha influito anche sui generi musicali, con Hip Hop e Rap a guidare il repertorio più ascoltato oggi e non solo negli Stati Uniti. Le case discografiche sono diventati partner essenziali nel nuovo ecosistema.
Oggi l'80% della musica venduta negli Usa è digitale
I dati mostrano anche come la rivoluzione online (oggi l’80% della musica venduta negli Stati Uniti è digitale) sia costantemente di fronte a cambiamenti. Basti pensare che pochi anni fa sembrava che il download di brani musicali da piattaforme come Itunes fosse la grande innovazione ed oggi questo formato è stato di fatto sostituito dallo streaming e addirittura sorpassato nuovamente dal compact disc e dalla ripresa del vinile.
Dai dati RIAA si vede come il mercato americano sia oggi costituito per il 65 % da streaming (free e premium), per il 17% da cd e vinili e per il 15 % da download, con un 3 % residuo di sincronizzazioni (musica per film, serie TV e pubblicità).
Tuttavia, come già osservato nei numeri presentati da Spotify per la prossima quotazione allo stock exchange di New York, il mercato discografico post rivoluzione digitale è ancora estremamente fragile. Prima di tutto il mercato americano del 2017 rappresenta il 60% di quello che era nel 1999, prima di Napster. L’innovazione ha avuto costi tremendi anche in termini di posti di lavoro in questi anni. Ma le prospettive sono sicuramente molto interessanti.
La base utenti in abbonamento in costante crescita dimostra che le redditività del settore può migliorare sensibilmente. Nuovi mercati come la Cina offrono potenzialità enormi e già oggi hanno milioni di abbonati che consumano musica con i propri smartphone.
La musica cambia velocemente, le leggi molto meno
Restano alcuni elementi incompatibili con un mercato così innovativo e che frenano lo sviluppo sia negli Stati Uniti come in Europa. Mentre l’evoluzione dei modelli di business nella musica è stata rapida e dirompente, la legislazione è rimasta ancorata a modelli antiquati che hanno consentito la creazione di rendite di posizione per piattaforme che offrono contenuti ma che versano molto poco in diritti.
La questione del Value Gap, ovvero la discriminazione remunerativa tra piattaforme che offrono contenuti caricati dagli utenti, come YouTube, e i servizi come Spotify, Deezer o Apple Music è oggi il problema più rilevante, come dimostrano anche recenti studi accademici.
Vi sono imprese che grazie ad una normativa vecchia di oltre venti anni e concepita per intermediari passivi e neutrali estraggono enorme valore dal consumo di musica senza remunerare adeguatamente i titolari dei diritti ed incidendo così sullo sviluppo dell’innovazione nel settore creativo.