Perché Spotify non potrà mai diventare il Netflix della musica

4 aprile 2018

La quotazione diretta di Spotify ha visto sicuramente un primo vincitore, ovvero il CEO Daniel Ek e la sua intuizione di lanciare al Nasdaq il colosso dello streaming musicale con il listing diretto, evitando intermediari e sottoscrittori e vendendo azioni esistenti agli investitori per raccogliere un miliardo di dollari, che costituisce sicuramente un segnale per tutte le prossime quotazioni di startup tecnologiche. Solo pochi anni fa, nel 2015, la società aveva un valore di mercato di 8 miliardi di dollari; dopo la quotazione a Wall Street del 3 aprile la capitalizzazione della società è arrivata a sfiorare i 30 miliardi di dollari. Lo streaming musicale, l’ennesima rivoluzione tecnologica che ha accompagnato l’industria discografica dalla nascita del fonografo, è definitivamente sdoganato come modello imprenditoriale innovativo anche se in un’economia tuttora fragile.

Il mercato discografico del 2017, che supera i 16 milioni di dollari, non arriva oggi al 60% di quanto rappresentava nel 1999, prima di Napster e della rivoluzione dell’mp3 ma i numeri legati agli abbonati ai servizi di streaming che crescono in maniera significativa ogni mese stanno generando grandi aspettative, come peraltro ha confermato l’accoglienza entusiasta della quotazione di Spotify da parte degli investitori.

Oltre cento milioni di consumatori nel mondo accedono a musica tramite una piattaforma streaming: per esempio, negli USA il 65% del mercato discografico è generato dallo streaming.

Tra le questioni ancora aperte sicuramente centrale rimane quella delle perdite di Spotify: al netto dei successi tra abbonamenti e fatturato, l’azienda è infatti entrata in borsa con 1,5 miliardi di perdite - raddoppiate tra il 2015 e il 2017 - e diversi commentatori hanno attribuito la situazione finanziaria dell’azienda soprattutto alle possibili elevate royalties versate agli aventi diritto, case discografiche ed artisti.

Molti hanno anche speculato su alcune dichiarazioni di Daniel Ek in favore di un rapporto più diretto tra Spotify e gli artisti: e il paragone è subito corso a Netflix, il colosso del cinema in streaming e alla sua attività di produzione in house di serie televisive.

Se si osserva la percentuale dei costi per acquisizione dei contenuti di Netflix e Spotify, in realtà essi sono molto simili: 83% per la piattaforma video e 84% per il colosso svedese (dati Midia Research 2016). Tuttavia il primo realizza margini per il 18%, mentre il secondo sconta un meno 9%. La soluzione prospettata da più parti per Spotify sarebbe quella di seguire dunque la strada di Netflix, privilegiando la produzione di contenuti originali: ovvero, più semplicemente, firmando direttamente gli artisti, nel caso della musica. Diventa chiaro alla luce di questa analisi come molti costi di produzione e di ricerca e sviluppo potrebbero essere ammortizzati nel bilancio: nel 2016 Netflix ha ammortizzato costi per “streaming content assests” per 4,5 miliardi di dollari.

Ma è ipotizzabile uno scenario dove Spotify si sostituisce alle case discografiche?

Le economie del settore raccontano una realtà molto diversa per il segmento musicale.

Prima di tutto una parte molto rilevante nei ricavi dello streaming è generata dal catalogo costituito da milioni di brani che popolano centinaia di migliaia di playlist a livello globale. Spotify potrebbe, in ipotesi (e altri lo hanno già fatto), firmare qualche artista di primo piano, peraltro a costi spesso fuori mercato perché ancora basati su vecchi contratti siglati nell’era del prodotto fisico, ma certamente non sarebbe in grado di disporre di quella massa critica di repertorio che serve oggi per generare profitti in un mercato di massa (e di dimensione globale) come è quello dello streaming.

Sicuramente Spotify ha la capacità di promuovere alcuni giovani artisti, e anche qui già oggi ha posto in essere iniziative con artisti indie dando loro enorme visibilità. Potrebbe in effetti firmare direttamente con qualche giovane artista, offrendo interessanti anticipi ma - come già anticipato - il mercato richiede costante ricambio e skill aziendali nel settore della ricerca & sviluppo che non si improvvisano e che comportano investimenti costanti nel tempo. Costruire una carriera di un artista è un progetto a lungo temine. Si guarda spesso e volentieri solo a esperimenti che escono da talent o dal web, ma anche in questo caso per poter dare vita a una solida carriera, evitando di risultare una meteora, il lavoro delle etichette inizia in realtà solo dopo il successo effimero della vincita di uno show. Per non parlare del continuo cambiamento dei gusti del pubblico, che si riflettono nel repertorio.

Solo nel 2015 gli investimenti mondiali delle case discografiche, secondo il report Investing in Music di IFPI hanno raggiunto la cifra di 4,5 miliardi di dollari, il 27 % dei ricavi globali. I dati raccontano che il costo medio per lanciare un artista in USA e UK possono variare da 500 mila a 2 milioni di dollari. Un progetto discografico internazionale può costare da 475 mila dollari a oltre 2 milioni e il lavoro che c’è dietro è realizzato da professionisti che si occupano solo di aree specifiche ma molto precise nel contesto artistico.

Mediamente i progetti che falliscono sono uno su cinque: il flop è compensato dai successi, sporadici, ma anche dai ricavi legati agli immensi cataloghi che muovono miliardi di stream ogni giorno. Le etichette non solo lavorano sulla parte artistica e di ricerca, ma accompagnano l’artista su tutti i fronti della promozione e dei social media. Negli ultimi anni, mentre il mercato discografico era in calo, le etichette aumentavano gli investimenti in ricerca e sviluppo proprio perché la costruzione di nuove carriere rimaneva il core business delle case discografiche, grandi e piccole.

Un’azienda che ha obiettivi a breve o medio termine difficilmente potrà costruire un modello sostenibile e soggetto a continui e inevitabili flop. Non si prende un giovane artista che si propone su YouTube e lo si trasforma in un successo globale, questo è ormai stato dato per assodato. Spotify potrebbe al limite sviluppare un’area di business come aggregatore, simile a società già attive sul mercato come la francese Believe, assistendo artisti senza o con piccole etichette: ma difficilmente potrebbe risultare un diretto competitor delle case discografiche, con le quali comunque avrebbe poi un conflitto d’interesse essendo essa stessa il primo interlocutore per la distribuzione online.

Certamente oggi la diversificazione tra le piattaforme (e quindi la concorrenza tra Apple, Amazon e Spotify) passa anche attraverso la disponibilità di contenuti originali: qui si aprono scenari possibili che riguardano video dedicati, interviste o session live esclusive. Tutto però lascia il contenuto principale sempre in mano alle etichette discografiche.

Un’azienda che entra nel mercato discografico deve sicuramente tenere conto che gli investimenti nel breve periodo sono a rischio elevato e chi ha provato a lanciarsi nell’avventura discografica senza esperienza, contando di massimizzare i risultati in poco tempo e con una piccola squadra di artisti (anche se di livello), ha abbandonato molto presto questo cammino.