Quanto costerebbe al settore musicale (e allo Stato) non fare la riforma del copyright

16 novembre 2018

Nei giorni scorsi Susan Wojcicki, amministratore delegato di YouTube, in un’intervista al Financial Times ha lanciato l’allarme sugli effetti della riforma europea del copyright. “L’economia creativa è minacciata dall’articolo 13 della riforma del copyright dell’Ue”, ha detto Wojcicki, perché rende i servizi online direttamente responsabili delle eventuali violazioni causate dai contenuti caricati sulle loro piattaforme. “Condividiamo gli obiettivi ma non il metodo, che mette a repentaglio i ricavi di centinaia di migliaia di artisti e creativi” ha chiosato. La proposta di direttiva sul copyright, approvata dal Parlamento Europeo a settembre e ora oggetto del trilogo - ovvero del negoziato con il Consiglio degli Stati membri per trovare un compromesso finale - viene definita da YouTube un rischio così grave da portare potenzialmente la piattaforma a bloccare molti video nell’incertezza di conoscere se tale contenuto sia legale o meno. Un motivo per chiamare a raccolta il mondo dei creativi attivi sulla piattaforma contro la riforma comunitaria, la prima di tale respiro dopo quella del 2001, quando YouTube non esisteva. L’approccio di Google è noto: la frase “sarà la fine di internet” è stata ormai utilizzata più volte dal colosso di Mountain View in occasione di ogni riforma normativa o dell’introduzione di un nuovo pacchetto legislativo su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche in occasione del processo di revisione delle normativa sulla privacy, il celebre GDPR, non sono mancati allarmi sui gravi rischi connessi a normative che avrebbero penalizzato l’ecosistema delle rete, norme in realtà che costringevano l’azienda ad adattarsi semplicemente a regole condivise. La questione anche qui è molto più banale: i ricavi di YouTube, generati grazie a una posizione giuridica favorevole derivata da normative ormai obsolete, sono enormi rispetto a quanto versato dall’azienda di video sharing agli aventi diritto nel settore musicale. Affermare che la nuova normativa europea creerà un peso economico ingestibile è in realtà solo un modo strumentale per evitare di doversi confrontare con una nuova legislazione, che collocando il modello di business di YouTube nell’alveo della comunicazione al pubblico (come altre piattaforme simili che offrono contenuti online) richiederebbe a YouTube una licenza preventiva con evidenti ricadute economiche, ma a beneficio del settore dei creativi – e non contro. Osservando i recenti dati sui consumi di musica digitale, emerge che nel solo segmento dello streaming l’utilizzo di YouTube per ascoltare musica sia all’84% (e sul totale dei consumi di musica rappresenta il 47%). È la piattaforma più utilizzata dai giovanissimi, anche in Italia, utilizzata dall’89% dei 16-24 anni per condividere video musicali, contro il 35% di chi utilizza servizi audio streaming. Ciò significa che da un lato la piattaforma rappresenta un importante partner per l’industria, ma che dall’altro le economie generate sono ben lontane dall’essere sostenibili per il settore. Se pensiamo ai ricavi generati da YouTube a livello globale e ragionassimo sui diritti che la piattaforma dovrebbe versare in un contesto di legislazione uniforme, la piattaforma dovrebbe versare circa 13 miliardi di dollari all’anno agli aventi diritto del settore musicale. A titolo di esempio, Spotify nel 2017, con circa 160 milioni di utilizzatori, ha versato in royalties 2,2 miliardi di dollari. YouTube, che secondo Susan Wojciki ha oltre 1 miliardo di utenti, ha versato meno di 500 milioni. Il mercato discografico USA, secondo i dati IFPI, nel 2017 valeva 8,7 miliardi di dollari: emerge chiaramente quanto sia vasto il gap tra i ricavi della piattaforma e il riconoscimento di un’adeguata remunerazione. Venendo all’Italia, anche applicando le considerazioni più conservative, ovvero tenendo conto esclusivamente del servizio basato sulla pubblicità di YouTube e Spotify e il numero di utenti, i ricavi dalla piattaforma di video sharing dovrebbero essere almeno il doppio di quelli attuali (nel 2017, secondo i dati Deloitte, ammontavano circa a 13 milioni). E questo solo per quanto riguarda l’industria discografica, ai quali andrebbero aggiunti i mancati ricavi per autori ed editori e la perdita di incasso IVA per lo Stato. Tenendo conto anche dei ricavi pubblicitari dirottati all’estero per evitare l’imposizione, è evidente che la collocazione giuridica attuale penalizza non solo gli aventi diritto ma anche le finanze dello Stato italiano: un buon motivo per sostenere una decisa riforma europea.