Ai primi di settembre, la proposta di revisione della Direttiva copyright, ormai risalente a quasi venti anni fa, tornerà all'esame dell'aula di Strasburgo. Il testo approvato dalla Commissione Affari legali del Parlamento (JURI), è stato rinviato ad una discussione in plenaria da un voto negativo del 5 luglio scorso. Il relatore Voss aveva chiesto il mandato per negoziare il testo approvato in giuridica con Commissione e Consiglio EU ma la proposta è stata respinta. La proposta di direttiva è stata oggetto di una forte strumentalizzazione dalle lobby dei grandi colossi tecnologici americani, con in testa Google, da sempre refrattario ad individuare una regolamentazione che individui un'adeguata remunerazione per le utilizzazioni di contenuti online. In molti hanno scritto di uno scontro in Europa dominato da un lato dalle imprese high tech, presentate come l'evoluzione, e dall'altra i produttori di contenuti, rappresentati come il vecchio mondo che cerca di proteggere modelli di business non più aggiornati nell'era digitale. La questione è in realtà oggi completamente ribaltata. Se osserviamo, per esempio, il settore musicale, il 43% dei ricavi generati in Europa dall'industria discografica nel 2017 sono digitali (dati IFPI), con una crescita del 17,5%, e lo streaming rappresenta ormai oltre il 70 % dei ricavi online. In Italia, nel primo trimestre del 2018 lo streaming ha superato il fisico e la crescita degli abbonati ai servizi online è in costante crescita. La case discografiche hanno creato forti partnership con le imprese di tecnologia e due di esse, Spotify e Deezer, sono aziende europee che hanno ottenuto un successo globale. La stessa YouTube, la società di video sharing di proprietà di Alphabet, la holding di Google, è uno dei partner principali delle case discografiche. Pertanto, come detto, è falso che sia in corso uno scontro tra vecchio e nuovo mondo. In questo momento, in realtà, le imprese che non accettano che l'evoluzione tecnologica abbia cambiato i parametri della messa a disposizione di contenuti online sono proprio aziende come Google e Facebook, aziende legate a un modello di ricavi che ha trasformato, insinuandosi tra le pieghe di una normativa non più aggiornata, i campi di grano dei contenuti digitali in un'immensa prateria senza controllo. La distorsione esistente nel settore dello streaming, per esempio, non è certamente colpa di Google o di YouTube ma di una legislazione nata quando le piattaforme di video sharing non esistevano, ma della quale YouTube ha approfittato posizionandosi in un porto sicuro (safe harbour) nato originariamente solo per tutelare intermediari passivi e neutrali, cosa che evidentemente YouTube oggi non è. Questa collocazione giuridica ha fatto sì che tra piattaforme simili come Spotify, Apple Music e YouTube vi siano differenze tali da introdurre una vera e propria distorsione economica nella remunerazione versata agli aventi diritto. Su questo punto sono sostanzialmente chiamati a esprimersi i parlamentari europei il prossimo 12 settembre. In particolare sull'articolo 13 della direttiva, accusato di introdurre meccanismi di censura e di filtraggio indiscriminato. Si tratta tuttavia di una falsa rappresentazione della realtà, che peraltro ha visto il nuovo governo italiano sposarne le tesi. Il monitoraggio indiscriminato non esiste, come ha anche evidenziato il parere del Garante europeo per la privacy. Il sistema di controllo tecnologico sui contenuti riguarderà solo ed esclusivamente le piattaforme di upload di grandi quantità di contenuti (e non quindi l'intera rete internet) e riguarderà solo i contenuti sui quali i titolari dei diritti inseriranno misure di identificazione del contenuto. A scelta del titolare del contenuto, esso potrà essere bloccato o monetizzato, come avviene già oggi con il content ID di YouTube sui video musicali. Completamente falsa e manipolatoria è stata la campagna di Wikipedia che ha bloccato la propria pagina di accesso all'enciclopedia online, dato che la stessa proposta di direttiva l'esclusa dagli effetti del dettato legislativo. Come ha giustamente osservato il Financial Times, le aziende di high tech sono state brave per molti anni a convincere i consumatori che i loro interessi e quelli delle aziende della Silicon Valley fossero comuni, ma è chiaro che oggi, in un'economia che da essere guidata dai beni fisici si è spostata in una guidata da contenuti immateriali come proprietà intellettuale e dati, queste aziende godono di una competizione squilibrata e vantaggiosa per i propri interessi e lottano per mantenere questo status quo. Si tratta di eccezioni legislative oramai datate e che difendono business che si basano su meccanismi che hanno alla base un pagamento modesto dei titolari di diritti a fronte di ricavi enormi. Su questa asimmetria sono chiamati, senza distinzione di fede politica, a pronunciarsi i parlamentari. Se vogliono un Europa creativa debole e sottomessa al dominio di imprese di tecnologia dell'altra parte dell'Atlantico o un'industria creativa forte e protagonista sulle reti globali.